Musica in Egitto

Musiques d’Egipte

di Frédéric Lagrange

traduzione integrale di Sabina Todaro

Introduzione

Questo libro di Lagrange è estremamente interessante non solo rispetto alla musica egiziana ma anche per ciò che riguarda la musica araba in generale.

Lagrange è uno studioso che conosce bene non soltanto la musica ma anche la cultura e la mentalità egiziana, e leggere il suo libro ci dà enormi spunti di riflessione. Per questo la traduzione è questa volta assolutamente integrale, parola per parola, cosa che richiede purtroppo di dividere l’opera in due parti.

lncidentalmente, spesso, nell’opera, si parla di danza e si descrive la danza tradizionale, non quella da cabaret.

Al libro è allegato un CD.

 

Frédéric Lagrange

MUSIQUES D’EGYPTE

Ed. Musiques Du Monde Cité de la Musique/actes sud 1996

L’Egitto ha da sempre fatto sognare, e continua ad alimentare i fantasmi. I viaggiatori si sono succeduti sul suo suolo fin dalla più lontana antichità, e già Erodoto raccontò i costumi musicali propri degli abitanti della valle del Nilo. A partire dal secolo XVlll e senza più interruzioni un discorso sulla musica egiziana è stato fatto da degli europei. Le pagine avvolte da una dolce nobiltà di un Niehbuhr, quelle infiammate di un Savary hanno stimolato il desiderio di conoscere di più. Questo spirito si manifesterà con la spedizione d’Egitto del generale Bonaparte. A partire dal secolo XIX, una riflessione scientifica e sistematica fece diventare peraltro l’Egitto alla moda. l sansimonisti vi trovarono una risorsa. Una delle loro figure di punta, il compositore Félicien David, riporterà sui suoi appunti una sinfonia fresca e colorata, “Le Désert”, che segnerà la sua epoca. Un movimento turistico approfitterà della navigazione regolare dei transatlantici delle Messageries Maritimes. Attraversano il Mediterraneo, assistendo con concupiscenza e delizia all’evoluzione delle “almées” la cui reputazione aveva già da lungo tempo lasciato il suolo egiziano: esse nutrirono di fantasmi diversi una società francese moralista e pudibonda. E’ in Occidente che nascerà il mito egiziano della danza dei sette veli.

Dopo il secolo XX, l’Egitto musicale ha subito moltissimi sconvolgimenti. Non si è cessato, e con passione, di mettere in questione il suo destino, la sua ragione di essere ed il suo avvenire. Opere di letteratura musicale, sui rudimenti della musica, la comparsa del grammofono, i primi tentativi di adattamento della notazione occidentale, la proliferazione della musica militare di tipo europeo, la fondazione di scuole di musica, l’intrusione di strumenti copiati da un modello occidentale, tutto questo non ha fatto che contribuire a uno sviluppo che prosegue fino a oggi e nel quale di solito le frontiere che vanno dalla tradizione alla modernità saltano. Per di più, una vita musicale di prima qualità, sia al Cairo che ad Alessandria, ha attratto personaggi prestigiosi: Sarah Bernhardt, Wilelm Furtwangler, Beniamino Gigli, Heifetz, Wilhelm Backhaus, Aram Kachaturian, Edith Piaf e molti altri, tutti glorificati dalla stagione dell’Opera del Cairo. Vi hanno lasciato dei ricordi incancellabili. Per contro, l’Egitto ha imposto all’estero e in Occidente le sue figure di punta, particolarmente quelle di due giganti, la quarta piramide d’Egitto, Umm Kulthum, e il compositore e cantante modernista Muhammad Abd al Wahhab. ln questi ultimi decenni, l’immagine dell’Egitto si è egualmente arricchita di un nuovo tema, più locale, quello dei Musicisti del Nilo, che simpaticamente sono venuti ad incastonarsi in un paesaggio musicale occidentale già riccamente sollecitato da multiple influenze.

Frédéric Lagrange, dalle pagine che seguono, smonta con una conoscenza perfetta e una rara maestria, il meccanismo di questa avventura e la sua posta in gioco. Sottolinea la sua complessità e la sua ricchezza. Tenta di mostrare che la vita musicale egiziana non è stata circoscritta a qualche individuo, ma che numerose figure, spesso anonime, cadute nell’oblio, hanno contribuito tanto quanto le celebrità sospinte nel firmamento. La musica colta è il suo argomento; vi si muove con agio. Tutto sommato è il risultato di una riflessione approfondita, esposta in una brillante tesi di dottorato. Ha scoperto gli arcani della musica in Egitto, marginali come nella prima metà del secolo e magnifica un ritomo al suo cammino di un tempo, quello percorso da Abduh Al Hamuli e da altre voci illustri come quella di Salama Higazi, miracolosamente conservata dalle vecchie cere.

L’Egitto resta il punto di fuoco del mondo arabo e occidentale. Ha attraversato le sue correnti contraddittorie, come chiariscono queste pagine. In questo cammino, la figura dei giganti non si trova sminuita, ma la febbrilità del secolo XX e le sue ramificazioni, fino a ora affare di specialisti, si pongono sotto un nuovo angolo di visuale, e salgono all’attenzione del lettore. Ne assicurano la forza e la fortuna, come modelli, nel secolo XX, in una storia immediata ma comunque erede di una millenarità.

Christian Poché

INTRODUZIONE

Forte dei suoi 50 milioni di abitanti, “corona gloriosa posta sul cuore dell’Oriente”, secondo un verso di Hafiz Ibrahim (1872-1932) che cantava Umm Kulthum, l’Egitto ha esercitato durante il corso del secolo XX un imperialismo culturale che si estendeva, seguendo la formula consacrata da Nasser, dal Golfo all’Oceano.

Dal riformismo religioso alla reazione clericale, dal ripiegamento faraonico al panarabismo, le ideologie più varie e contraddittorie sono nate in terra nilotica e si sono propagate nel mondo arabo-musulmano; al tempo stesso, l’influenza intellettuale del paese si è spinta sulla letteratura, il teatro, il cinema, e,certamente, la musica.

Quest’ultima è uno dei più sicuri vettori deIl’egemonia culturale del paese. L’attrazione esercitata dalle tradizioni musicali egiziane è antica e precede la comparsa dei media, che amplificarono una dominanza di fatto: la “contaminazione” dei repertori siro-libanesi e maghrebini da parte delle ultime creazioni alla moda del Cairo è tassativa alla lettura dei primi cataloghi di dischi stampati in Africa del Nord e in Oriente, ed è naturalmente al Cairo che si tenne il primo Congresso di musica araba nel 1932.

Nel corso del primo terzo del secolo, generazioni di intellettuali e di artisti tentarono di definire una cultura araba modema. La musica dovette essere una delle più brillanti espressioni, in un tempo in cui l’antico sogno dei Khedivi di conquistare l’Occidente imperiale non era ancora stato messo da parte dalle disillusioni e dai freni della mentalità. ll canto colto e poi una forma intermedia fra questa arte e ciò che in Francia si chiama “varietà”, si diffusero in tutte le classi sociali, dal Sa’id (Alto Egitto) alle remote campagne del Delta, e al di là delle frontiere. La canzone è il prodotto culturale più comunemente condiviso da tutti gli strati sociali, il più accessibile e quello di consumo più immediato. Queste metafore commerciali sono tanto meno innocenti quanto più la musica egiziana fu al tempo stesso esperienza di creativi e industria fiorente, affare di mercanti, di mecenati, di clientelarismo e insieme di artisti.

L’Egitto è un punto di incontro di tradizioni, e il secolo XX un tempo di sperimentazioni. Una fase dello sviluppo endogeno seguì la prima guerra mondiale e una musica di corte si costruì ispirandosi ai canti religiosi, ai ritmi e alle danze popolari e alle tradizioni arabe, turche e persiane. L’aspirazione al progresso universale condusse in seguito certi musicisti professionisti, protetti dalla nascente industria del disco così come dagli intellettuali a offrire una nuova giovinezza alla musica colta araba attraverso la via della fecondazione esogena. Fra l’attrazione della facilità, incoraggiata dal commercio, e la ricerca di una nuovaespressività, richiesta dall’élite, la musica egiziana di grande diffusione brancolò per poi partorire delleforme che coprono uno spettro musicale ampio, dall’arte destinata alla posterità al divertimento più leggero.

Ma queste forme furono tutte concepite, scritte ed interpretate nel seno di un unico gruppo di compositori,di strumentisti e di cantanti il ricordo dei quali occupa ancora la cresta emersa della musica dell’Egitto.

Questo aspetto della produzione musicale egiziana, così incline a chiamarsi “musica araba”, non riassume affatto in essa soltanto le espressioni musicali straordinariamente varie di questo paese. Il concetto di “musica egiziana” fu nel corso del secolo XX eminentemente ideologico. La musica colta si presentò sino agli anni trenta come “musica orientale”, riconoscendo con questo vocabolo la sua tradizione contrapposta a quella ottomana. ll Congresso del Cairo, nel 1932, fu la prima occasione di confrontare le musiche dei diversi paesi di lingua araba. Gli egiziani, che tentavano al tempo stesso di definire la loro identità e la loro specificità culturale nel seno dell’insieme arabo- musulmano, si appropriarono del nuovo concetto di “musica araba” e presentarono come caratteristiche universali degli aspetti tipici della loro arte. La rivoluzione del 1952 battezzò “musica egiziana” una parte del patrimonio colto e contribuì alla diffusione della musica “modernista” da un capo all’altro del mondo arabo, per la più grande gloria della patria. Ciononostante, molti aspetti della cultura musicale egiziana, e in particolare le sue tradizioni rurali furono trascurate…

Questa opera intende presentare le musiche dell’Egitto nella loro diversità sociale, geografica e nel loro sviluppo attraverso il tempo, dall’ìnizio del secolo fino all’epoca contemporanea, includendo una riflessione sui testi cantati e sui rapporti che intercorrono fra questi e la musica che li sostiene. Le tradizioni rurali, i canti religiosi, l’arte colta e la canzone di varietà concorrono tutti insieme alla ricchezza del paesaggio musicale egiziano: nella loro globalità e nella loro interazione formano la “musica egiziana” che non cessa di portare l’anima di questo popolo al di là delle sue frontiere.

I termini seguiti da un asterisco sono riportati nel glossario.

 

MUSICHE RURALI TRADIZIONALI

Le espressioni sonore e vocali che fanno parte dei repertori sacri e popolari sono alla base di ciò che gli egiziani considerano come “musiqa”: l’alimentano con ritmi, formule melodiche, morale e uomini.

Ma queste sorgenti primordiali che sono la salmodia coranica, gli inni religiosi tutte le forme di musica popolare rurale non fanno parte integralmente del patrimonio della “musiqa”. Per gli esecutori così come per il pubblico, la salmodia del Corano non entra nella categoria “musica”, e Bridget Connelly nel suo lavoro sul folklore epico egiziano segnala bene le reticenze degli egiziani a guardare ai poeti delle “gesta hilaliane” come a dei cantanti o dei musicisti; secondo il termine storico, “dicono” la poesia,. l termini derivati dalla radice greca del vocabolo arabo “musiqa” si riferisce tradizionalmente ad un’arte colta o semi colta (musica di varietà e di divertimento), esercitata da professionisti del piacere intenti a provocare una emozione estetica (tarab*), che trova in se stessa la sua sola ragione di essere. Le espressioni musicali associate aduna funzione sociale o religiosa portano il termine tecnico che le designa, o appartengono, nel caso dei canti popolari, al dominio del “maghna baladi” (canto rurale).

ll termine “baladi” (locale, rurale), che a volte presso gli abitanti della città assume una connotazione di leggero disprezzo, di fronte al mondo “sottosviluppato” delle campagne, era all’inizio del secolo la sola classificazione che permettesse di inglobare la musica folkloristica ed è questo il termine che troviamo nei cataloghi delle case discografiche che presentavano a un pubblico cittadino curioso qualche rara incisione  di un’arte che si poteva ancora ascoltare nei villaggi. A partire dagli atti del Congresso del Cairo del 1932 apparve la nozione di “aghani sha’biyya” (canzoni popolari), sotto l’influenza degli etnomusicologi occidentali. Le traduzioni arabe del concetto di “musica popolare” e di “folklore” sono oggi correntemente utilizzate, mentre queste produzioni musicali si cancellano progressivamente di fronte alla musica di varietà, diffusa dai media.

In ogni caso, questa estinzione è più lenta di quanto non lasciassero presagire le lamentele dei congressisti del 1932, di Hans Hickmann (1958) o di Tiberiu Alexandru e di Emile Wahba (1967), pionieri delle registrazioni scientifiche della musica popolare egiziana. Certamente alcuni strumenti si sono modificati, le interazioni con la musica di varietà si sono fatte più evidenti, ma i suonatori di mizmar* (oboe popolare) degli anni ’10 registrarono di certo sui 78 giri delle versioni “baladi” di pezzi del repertorio strumentale colto egitto-ottomano… I generi fondamentali che costituiscono l’armatura della tradizione popolare egiziana hanno ancora numerosi interpreti e sono senza sosta riscoperti dai ricercatori occidentali, ma anche dagli intellettuali egiziani gelosi di preservare la loro eredità culturale (conosciamo il notevole lavoro del poeta Abd al Rahman al Abnudi nella raccolta delle Gesta Hilaliane), o da istituzioni governative sensibilizzate alla difesa delle arti popolari.

L’eredità faraonica

La questione dei rapporti fra la tradizione musicale popolare egiziana contemporanea e la musica dell’era faraonica non ha cessato di preoccupare i ricercatori. Curt Sachs, il precursore tedesco della musicologia comparatista propose negli anni trenta l’ipotesi plausibile di una struttura pentatonica della musica faraonica. La natura pentatonica delle melodie strumentali o cantate in Nubia e al nord del Sudan, la scoperta dei costumi della tribù dei Bìcharin rinforzano questa ipotesi di un sottostrato africano molto antico che si sarebbe conservato nelle zone più meridionali del paese, mentre la musica del Delta e dell’Egitto Medio avrebbe sostituito a quelle scale antiche i micro intervalli tipici della tradizione medio orientale. Si sottolinea anche, nel “namim” o nel “marbu”, tipi di canti interpretati nella regione di Aswan, una struttura melodica pentatonica inusitata più a nord. Delle similitudini fra gli strumenti rappresentati sui monumenti antichi e gli strumenti moderni del repertorio rurale hanno parimenti colpito i folkloristi: Alexandru sottolinea che il “qithar*’ o “tanbura”*, lira a cinque corde suonata nella regione di Aswan, è accordata in modo pentatonico nel Sa’id, e la identifica come una derivazione della cetra dei bassorilievi faraonici. E’ notevole che l’interesse portato dagli egiziani alla musica dei loro antenati coinciderebbe con l’apogeo dell’ideologia “faraonista”, che voleva (riaffermare il legame che univa il popolo che aveva eretto le piramidi con il moderno Fellah (contadino) e rimettere la cultura egiziana nel quadro mediterraneo ed ellenistico sorpassando, inglobandola, la dimensione arabo-musulmana. E’ a partire dal 1935 che il musicologo Mahmoud Ahmad Al Hifni fece apparire nella sua prima rivista “Al musiqa’ una serie di articoli sulla musica degli antichi egizi, seguiti da un libro nel 1936. Questo progetto intendeva superare l’antica nozione di musica orientale per giungere a quella di una musica nazionale egiziana, erede di molteplici influenze storiche, reali o mitizzate, ma consciamente rivendicate.

Nel suo “Rapporto preliminare sulle tracce dell’arte musicale faraonica nella melopea della Valle del Nilo”(1958), Hans Hickmann tentò di portare altre prove di una continuità musicale. La sua esposizione si fonda essenzialmente su dei fenomeni di battito delle mani e dei piedi combinati in maniera “variata e artistica, ritmica piuttosto che metrica”, osservati nell’Alto Egitto e in Nubia, e che gli paiono una sopravvivenza dell’arte dei ritmi antichi. Nota anche che una forma modernizzata del sistro, il ninnolo sacro dei sacerdoti dell’antichità, si è mantenuta in certe cerimonie della chiesa etiopica mentre è stato rimpiazzato nella liturgia copta da cimbali e triangolo (naqus). I cimbali egiziani, formati da due sottili placche di bronzo forate nel loro centro, sono senza dubbio all’origine dei sagat che utilizzano le attuali danzatrici, e il tamburello a cornice era in uso nelle piccole orchestre femminili del Nuovo Impero. ll clarinetto a doppia canna conosciuto nella V dinastia è apparentemente identico alla moderna “zummara” e anche il suo timbro deve essere molto simile (Ziegler 1991, 11-12). Per contro, l’oboe e l’arpa non si sono conservati. Queste somiglianze non sono comunque delle prove definitive di una parentela diretta fra l’arte degli antichi egizi e la musica popolare attualmente praticata nella Valle del Nilo. Forse è più notevole della permanenza strumentale è la persistenza di certe tematiche: Hickmann (1958, 23) cita così un “racconto del gatto e del topo” interpretato da un gruppo folkloristico di Asyut, che corrisponde in tutto e per tutto a una favola faraonica. Ma è soprattutto nelle lamentazioni funebri che si ritrova una eco del passato, o nei viaggi iniziatici del “maddah*” che conduce dalle tombe dei santi in Zawiya benedetta che si ritrova una eco delle peregrinazioni di santuario in santuario attraverso le città dell’Egitto antico che ospitavano il tempio di un dio?

Gli strumenti della musica popolare rurale

L’impiego di strumenti melodici è quasi sempre opera di professionisti o di semiprofessionisti, e solamente le percussioni sono correntemente suonate da dei dilettanti. Gli “alatiyya*“ (termine formato sulla radice “ala”, strumento) appartengono spesso a famiglie di professionisti che trasmettono il mestiere di padre in figlio (le donne suonano raramente strumenti melodici, escludendo le awalim*), e si fanno conoscere nel loro villaggio di origine prima di spostarsi attraverso il paese per animare feste, matrimoni, circoncisioni, mawlid*, e per accompagnare i cantanti professionisti. I canti di lavoro o della vita quotidiana sono di solito puramente vocali o accompagnati da dei membranofoni, mentre le espressioni musicali legate alle festività richiedono l’aiuto di musicisti itineranti o stanziati nella località specifica. E’ così che al di là di certe particolarità regionali, lo strumentario egiziano è relativamente omogeneo, a differenza dei canti, delle danze e della struttura modale, che cambiano fortemente dal Basso all’Alto Egitto, dal Sinai alla Nubia,dagli ambiti paesani alle tribù arabe ancora non completamente sedentarizzate.

Gli strumenti a fiato si dividono in tre famiglie principali: flauti, clarinetti (ad ancia semplice) e oboi (ad ancia doppia), i cui domini di utilizzazione si sovrappongono. Lo strumento essenziale della musica religiosa cosi come di quella profana è il flauto di canna, il nay*, termine generico che indica il flauto della musica colta, generalmente più lungo e di sezione più piccola rispetto agli strumenti popolari. Il flauto di canna presenta sei fori e viene tenuto obliquo dallo strumentista. Egli ne possiede una grande varietà, a seconda dei differenti toni e preparati per le varie scale musicali. Il flauto senza imboccatura è chiamato suffara, uffata o salamiyya a seconda delle regioni, e misura da 20 a 45 cm di lunghezza per un diametro di 20mm (El Shawan, 1994, 319). ll Nay kawala a sei fori è più corto e di sezione più larga del nay normale. Viene utilizzato per la betana del maddah, ma trova oggi spesso un utilizzo nella musica moderna di varietà.

Il doppio clarinetto arghul* è uno strumento peculiarmente egiziano, utilizzato nell’accompagnamento dei canti epici, dei mawwal* e delle danze. ll grande arghul (arghul kabir) è formato da un bordone di bambù di misura molto grande, che può raggiungere i 2,5 m, costituito al massimo da nove parti che si infilano le une nelle altre, e che non producono solitamente che tre note (Eisner, 1969, 239). ll tubo melodico, di circa 70cm, è forato da cinque o sei buchi, accordati su di una scala diatonica, ed è raccordato al bordone con cera e corde. Tramite una tecnica di soffio e di otturazione parziale dei fori, gli intervalli neutri della musica egiziana vi possono essere riprodotti. Altre varietà di arghul correntemente utilizzate sono: l’arghul saghir(piccolo), lungo dai 60 agli 85 cm, il tormay (”tramway”, senza dubbio cosi chiamato poiché i suoi due elementi costitutivi ricordano due binari paralleli) che è un piccolo arghul utilizzato nell’Egitto Medio, il cui bordone è prolungato da un padiglione di lamiera, la qurma, che ha due canne delle stessa lunghezza, così come la zummara, della quale ogni canna ha sei fori.

Il termine mizmar è utilizzato per designare diversi tipi di oboi popolari in legno. Il mizmar possiede otto buchi e la sua canna cilindrica termina in un padiglione conico (Alexandru, 1967). I gruppi di mizmar impiegano in genere tre strumenti di misura e timbro diversi, dal piccolo sibs acuto, di una trentina di cm, che suona la melodia, passando per la shalabiyya, o mizmar sa’idi, di una quarantina di cm, sino al grandetelt, di una sessantina di cm, che suona una nota di bordone. l gruppi di mizmar includono spesso tre suonatori e dei percussionisti, e conoscono, oltre all’accompagnamento dei cantanti, un repertorio strumentale variato legato alla danza: la danza del cavallo (raqs al khayi) o la danza del bastone (tahtib) incui due avversari mimano un combattimento.

Gli strumenti a corde sono più rari nel repertorio popolare che nel genere colto, e sono sempre legati a utilizzi o ad aree particolari. Fino al secolo XIX esistevano in Egitto due tipi di viole ad archetto, la rababa*al Sha’ir (rabab del poeta), di cassa rettangolare dotata di una sola corda di crine di cavallo, e la rababat almughanni* (rababa del cantante), che misura circa 90 cm. La rababa è costituita da una cassa di noce dicocco sulla quale viene tesa una membrana di cuoio o di pelle di pesce (raqma), fissata su di un pezzo dilegno, dotata di due corde accordate con un intervallo di quarta, il qawwal (corda parlante) ed il raddad(ripetitrice). E’ raro che sia utilizzata più di una ottava durante una esecuzione, benché lo strumento possa superare un’estensione tanto limitata. Le corde sono sfregate da un archetto di bambù con applicati dei crini di cavallo. Un simile strumento rettangolare rimane utilizzato nel Golfo Persico, e nel sud della Siria (Poché 1984, 177-178), ma è scomparso in Egitto dove rimane solo l’altro modello, usato dai cantori epici. Lostrumento è tenuto obliquo e si appoggia sul grembo del suonatore. Il repertorio epico non è il solo campo di utilizzo della rababa; non vi è dubbio che questo strumento fosse parte integrante del takht* della musica colta prima di essere soppiantato dal violino europeo nella seconda parte del secolo XIX, e una musica strumentale che include parecchie rababa e delle percussioni, mescolando danza e taqsim (improvvisazioni libere o in misura), è ancora suonata da un artista virtuoso come Metqal Qinawi Metqal di Kamak(Alexandru, 1967; Weber, 1976).

Tanbura e simsimiyya* indicano praticamente lo stesso strumento. Sì tratta di una lira a cinque corde tese su di una cassa di risonanza rotonda, utilizzata sulla costa del Mar Rosso e nello Yemen. La tanbura, usata nella regione di Aswan e nell’Alto Egitto, è accordata in modo pentatonico, mentre lo strumento che è diffuso nella zona del canale di Suez nella seconda parte del secolo XX si chiama simsimiyya, e riproduce gli intervalli propri della musica egiziana del Delta. Le corde possono essere pizzicate con le dita o con un plettro. La simsimiyya era tradizionalmente suonata nei caffè di Port Said da gruppi di sahbageyya, semiprofessionisti che ritmavano il loro canto responsoriale con battiti di mani (Safwat Kamal, 1994, 11). La versione modema dello strumento suonato dai gruppi folkloristici della regione del canale può ormai contare anche una dozzina di corde. Questi gruppi prevedono due strumenti, accordati ad altezze diverse per allargare l’estensione del suono, da percussionisti e cantanti che interpretano un repertorio originale di canzoni con ritornello ispirate alla taqtuqa, così come la “firqat al tanbura lil funun al shabiyya” (Ensemble di tanbura per le arti popolari), fondata a Port Said nel 1989. Si nota in questa pratica innovativa l’influenza della musica colta, nella presenza di brevi taqsim che precedono i canti collettivi, durante i quali tracce di ottavazione e di eterofonia* volute fra i due suonatori della melodia mostrano una contaminazione da parte del suono del qanun*, in particolare nella tecnica messa in atto con il plettro.

I due strumenti a percussione principali sono la darabukka* e il riqq*. La darabukka o tabla è un grosso vaso di terracotta (o ormai di metallo), a forma di imbuto dal collo largo, ricoperto da una pelle di pesce (raqma) o di plastica. Il tabbàl la suona seduto e tiene lo strumento appoggiato in diagonale sulla coscia, producendo il dum sonoro con un colpo al centro della membrana e il tak schioccante sul bordo della pelle, cioè sul vaso. Effetti virtuosistici sono ottenuti bloccando la membrana con un dito, creando una eco tenendo il palmo semi-aperto sulla superficie dello strumento, oppure introducendo un braccio nel collo. Lo strumento è stato per lungo tempo legato alle suonatrici awaiim, le cantanti dei matrimoni. E’ uno strumento inevitabile nei gruppi popolari, ed è entrato nel repertorio classico urbano a partire dalla prima metà del secolo XX. Il riqq, d’utilizzo più complesso, è un pesante tamburello montato su una cornice di legno con una raqma, o a volte semplicemente con una pelle di capra. Cinque paia di cimbaletti metallici sono posti sul bordo dello strumento, tenuto con due mani dal raqqàq con i pollici verso il basso e di fronte al viso. La pelle deve essere riscaldata per ottenere una risonanza ottimale, ed è diventato frequente vedere degli strumenti di metallo con membrana di plastica, che producono, secondo i musicisti intervistati, una sonorità soddisfacente. Altri membranofoni sono parzialmente legati alla musica religiosa e ai gruppi mistici: il duff, tamburello sensibilmente più largo del riqq (25-30 cm), più rudimentale e a volte privo di cimbaletti, il tar, senza cimbaletti, la hanna o bendir, di diametro ancora maggiore (50 cm) e necessariamente privo di cimbali. lnfine le formazioni di mizmar professionali includono una tabla baladi, grossa cassa a due membrane percossa da un lato con un bastoncino e dall’altro con un pezzo di legno (Alexandru, 1967).

Feste e rituali sociali

La dimensione collettiva del canto legato alla nascita, alla circoncisione, alle nozze, all’esorcismo o alla morte è una costante comune a tutte le regioni dell’Egitto. La tecnica del responsoriale, o la ripetizione di un ritornello da parte del gruppo mentre la strofa è interpretata da un solista, la voce di un cantante (il molo viene a volte assunto da diverse persone a turno) che si leva su di un ostinato dei coristi, sono tutti fenomeni musicologici che si ritrovano in numerose culture, ma che sottolineano bene in Egitto i registri rurali, religiosi, colti tradizionali e il varietà contemporaneo. I canti a ritmo organizzato seguono di solito un modello a ritornello e strofe posti su di una medesima frase melodica, la Taqtuqa. ll ciclo impiegato, sincopato e danzante, è solitamente una delle forme del Wahda wa noss, a volte chiamato Malfuf o anche Baladi. E’ il caso di un canto variabile come quello interpretato all’occasione di un sebu’, di una circoncisione, di un matrimonio, o di una canzone di pescatori dell’oasi di Fayum che Alexandru registrò nel 1967. Più rare combinazioni ritmiche, che mescolano degli idiofoni di fortuna con battimani o colpi di piedi esistono soprattutto nelle regioni più decentrate: Nubia o Sinai. I canti di rituale sociale sono spesso curati dalle donne della famiglia: i professionisti della musica sono rari in ambito rurale. Citiamo le Ghawazi, danzatrici invitate nelle feste di nozze. Ritmano le loro danze con l’aiuto dei sagat, cimbaletti di cuoio o di bronzo di un diametro di sei centimetri, forati al centro e che si fissano al pollice ed al medio di ciascuna mano. Esse possono così rispondere a contrappunto al ciclo ritmico suonato dal percussionista. A volte cantano, oltre a danzare, ma il repertorio che interpretano attualmente è essenzialmente basato sul varietà che trasmettono i media, riprodotto con l’orchestra limitata a un violinista, un fisarmonicista, un flautista e dei percussionisti.

Una abitudine ancora vivente è quella del sebu’, la festa che segna il settimo giomo che segue la nascita di un neonato. Si getta del sale attraverso la casa per proteggere dal malocchio e il neonato è posto in un grande setaccio (ghurbal) insieme con i semi di sette piante della valle del Nilo, mentre un gruppo composto da donne della famiglia ed alatiyya interpreta un canto di un particolare repertorio, del quale i pezzi più noti trovano origine nelle tribù beduine (Ahmad Amin, 1953, 229): “birgalatak birgalatak halaq dahab fe wadanatak”, gli uomini della tua famiglia ti offrono un anello d’oro per le tue orecchie.

E’ ancora in uso sentire un raccontino che si ritrova in quattro versioni, a seconda che la famiglia sia contenta o delusa per la nascita di un bambino o di una bambina. ln caso di felicità si canta:

Iamma qalu da ghulam                       quando mi hanno annunciato un bambino

etshadd-e dahri we qam                     la mia schiena si è risvegliata

we gabu-li l-bed meqashshar              mi hanno portato un uovo sbucciato

we aleb es-samn ‘am                         immerso in buon burro

oppure

Iamma qalu di buneyya                       quando mi hanno annunciato una bambina

qolt-e ya Iela haneyya                        mi sono detto: che buona fortuna!

totbokh lì we te’gen li                          mi aiuterà a cucinare e a impastare

we temla I-gerar mayya                      e riempirà d’acqua le giare

E in caso di delusione:

Iamma qalu da ghulam                        quando mi hanno annunciato un bambino

qolt-e ya lela zalam                             mi son detto che calamità

akabbaro w asammeno                       lo devo allevare e nutrire

we takhdo menni bent el haram           e me lo ruberà una smorfiosa

oppure

lamma qalu di buneyya                         quando mi hanno annunciato una bambina

haddamu I-fom alayyaa                       mi hanno rotto il forno addosso

we gabu-li l-bed be-qeshro                   mi hanno portato l’uovo ed il suo guscio

we bedal es-samn mayya                     e dell’acqua al posto di buon burro

 

Due mestieri riservati alle donne e rimasti ai margini del campo musicale hanno prosperato fino alla metà del secolo ed esistono ancora in ambito rurale: la piangitrice (mu’addida) e l’esorcista (kudyat al-zar). Le piangitrici professioniste sono necessariamente ingaggiate prima della sepoltura e si presentano nella dimora del defunto vicino alle donne della famiglia. Vestite di nero o di indaco (nila), il colore del lutto nell’antichità, prendono posto per terra in semicerchio, si coprono il capo di polvere ed agitano ritmicamente le braccia da un lato all’altro mentre elencano le qualità dal morto. Il loro canto responsoriale è a volte puramente vocale, altre volte è accompagnato da un tar (largo tamburo a cornice, privo di cimbaletti), e la loro melopea fa scattare crisi di pianti liberatori. Allora esse tacciono, per poi riprendere l’elencazione fino alla spossatezza dei parenti.

Quanto alla khudya, essa è l’animatrice o la shaykha che conduce uno zar. Si tratta di una cerimonia contro l’ammaliamento, sconfessata dall’lslam ufficiale e praticata fra le donne, il cui scopo è il raggiungimento di uno stato di transe liberatoria attraverso la danza su di un ritmo binario in un tempo che va crescendo. Questo rituale “sembra essersi integrato a delle pratiche magiche d’origine faraonica, che consistevano in un tentativo di terapia del fenomeno femminile della possessione” (Moussali, 1988, 54). Questa manifestazione si trova dalla Palestina fino al Sudan, con modalità sensibilmente diverse. La presenza distrumenti melodici è facoltativa (flauti nay e piccoli oboi sibs), ma le percussioni sono indispensabili: tar, Cdiukka, riqq, sagat vi trovano il loro impiego nei gruppi professionali che possono comprendere la presenza di strumentisti maschi (Hickmann, 1979, 44-48). Delle sezioni solistiche si alternano a frasi magiche collettive e a ritornelli interpretati da tutto il gruppo. I professionisti conoscono una grande varietà di canti, associati ai demoni che assalgono la vittima e ai santi dei quali si richiede l’intercessione, come Sayyid al Badawi. Il Congresso del Cairo del 1932 registrò un gruppo di zar egiziano, quello di Umm Ibrahim al Mahdiyya, e un gruppo sudanese. ll dialetto sa’idiano (Alto Egitto) che è utilizzato nel canto registrato si mescola qui alla lingua nubiana ”rotana” e la melodia acuta si riassume in questo esempio raro a una sola frase melodica molto semplice, sul genere bayati, cantato in responsoriale fra la shaykha e le sue coriste.

I folklorista Ahmad Amin tracciò un quadro pittoresco delle cerimonie di zar all’inizio del secolo (1953, 217): la donna che si sente posseduta da un ifrit (demone) riceveva a casa sua la visita della kudya e delle sue accolite. Seduta su di una sedia nel centro della riunione, i piedi della posseduta venivano dapprima legati prima che essa venisse liberata per la danza, e si posizionava un gallo sulla sua testa e un pollo su ciascuna spalla. l sacrifici di pollame sono ancora spesso una parte integrante del rituale. Mescolando canti ed ululii, la shaykha chiedeva la protezione di Dio e dei santi contro i demoni tramite la formula rituale ‘dastur ya asyadi, madad ya hl- Allah’ (protezione, o miei signori, aiuto, o gente di Dio), mentre i membri del gruppo battevano sulle percussioni e rispondevano alle invocazioni. Una donna appariva allora, vestita come un santo sufi, portando una cappa ricamata d’oro e un copricapo incastonato di perle, e danzava con un pugnale intorno alla stregata accompagnata dai canti del coro. La donna travestita giocava cosi il ruolo del santo e la posseduta diventava la sua sposa fittizia, danzando davanti al gruppo fino alla transe ed allo sfinimento. Il chiamare “mamma” che si sente nelle registrazioni del Congresso è una formula magica ricorrente dello zar: si tratta di una delle divinità tutelari della cerimonia, come Rumi nagdi, Abu Mraya (‘Quello dello specchio”), e Banat al madrasa (“Le scolare”).

I poeti delle gesta hilaliane

La migrazione delle tribù beduine hilaliane nel corso del secolo Xl dalla loro terra d’origine, lo Yemen, fino alla Tunisia, passando per il Nagd, lo Higaz e l’Egitto che devastarono a turno, è un awenimento storico di portata limitata che dobbiamo porre nel quadro dei tentativi della dinastia fatimita egiziana per sbarazzarsi di importuni saccheggiatori e indebolire i sovrani di Kairouan, gli Ziridi. Culturalmente, le vestigia del loro passaggio sono considerevoli. A dispetto dell’esiguo numero di anni nel corso dei quali i Banu Hilal transitarono nel territorio egiziano, nel Delta e poi nell’Alto Egitto, le disavventure di questi Arabi irrispettosi delle leggi che governavano le comunità rurali ma che portavano i valori dell’onore e della fedeltà incorruttibile, si trasformarono in una epopea popolare che proiettava un ideale morale atemporale e mitico su questi uomini del passato; il “poeta” egiziano contemporaneo ‘incorpora la realtà corrente nel passato e il passato nel presente” (Connelly, 1986, 56).

Le gesta hilaliane contengono tre parti: la prima narra la fase yemenita delle loro avventure e la nascita dell’eroe Abu Zayd al Hilali, il figlio dalla pelle nera del principe Rizq e della bella Khadra’, figlia dellosceriffo della Mecca. La seconda fase evoca la partenza degli Hilaliani, spinti dalla fame, verso il Nagd. Storie di donne separano Abu Zayd dal suo alleato Diyab e si concludono con la vittoria del primo. L’ultima parte evoca la lunga transumanza verso Ovest della tribù e l’amore che uni Sa’ada, figlia di Khalifa, il capo della tribù degli Zanati (berberi che si opponevano ai beduini Hilaliani), ad uno dei luogotenenti di Abu Zayd. Dopo aver trionfato sugli Zanati ed avere ucciso Khalifa, gli Hilaliani si dividono e Diyab assassina Abu Zayd, scatenando un ciclo di vendette. Queste linee riassumono una storia che richiede decine di serate per essere raccontata nella sua globalità. Fino alla comparsa delle poste e della radio, un cantore epico sha’ir (poeta) si poteva trovare in qualunque caffè, e gli ascoltatori che prendevano le parti di Diyab o di Abu Zayd facevano festa e decoravano il locale in caso di vittoria del loro eroe (Ahmad Amin, 1953, 21). l “poeti” sono scomparsi dai caffè, ma il mestiere non si è interamente perduto: hanno ancora un loro posto nelle feste di paese, nelle case private, e le trasmissioni radiofoniche presentate dal poeta e folklorista Abd al Rahman alAbnudi suscitano una eco sufficiente affinché villaggi interi dell’Alto Egitto inviino lettere di felicitazioni o di protesta quando un personaggio si allontana dalla tradizione (Connelly, 1986, 66). Non vi è un testo fisso che corrisponda alle gesta, e ogni poeta deve scrivere da sé le proprie quartine, ma la successione degli avvenimenti è immutabile, e gli schemi narrativi devono essere rispettati. Si trasmettono di padre in figlio, di maestro in discepolo in modo a volte mitico: è grazie a delle apparizioni dei santi o del Profeta che i recitanti dicono di essere stati iniziati alla Sira Hilaliana.

ll virtuoso della rababa Shamandi Tawfiq Mitqal interpreta durante i festival una versione più musicale, meno rispettosa dei dettagli dell’epopea, mentre i due rapsodi Sayyid al Duwl e Gabir Abu Husayn sono considerati attualmente i guardiani della tradizione. Lo Sha’ir può officiare da solo o essere assistito da un altro suonatore di rababa e da un percussionista. La rappresentazione comincia con un taqsim suonato sulla rababa, seguito dalla menzione di Dio e dalle preghiere sul Profeta. Questa apertura religiosa dura qualche minuto e si costruisce su di una frase melodica iniziale, che non è necessariamente in metrica. Una sezione in prosa viene in seguito a riassumere gli episodi precedenti e inizia la rappresentazione propriamente detta, con una suite di quartine che rimano su modello ABAB, variabile per ciascuna quartina. E’ allora che entra una seconda melodia, in misura e posta su di un tempo più rapido. Una melodia finale viene utilizzata alla fine della rappresentazione e un testo a connotazione religiosa viene nuovamente recitato. L’estensione della melodia è più ristretto nella Sira hilaliana, il numero delle frasi melodiche utilizzate e molto limitato e la bellezza della voce non è affatto condizionante per l’interpretazione. ll valore di una recitazione si situa, per gli artisti come per l’uditorio, nell’autenticità e nella precisione del racconto presentato.

Il mawwal

Questo termine generico indica diversi tipi di poema in lingua dialettale, che possono essere declamati o cantati. Giornali dedicati alla poesia popolare pubblicarono all’inizio del secolo dei mawwal politici, e le trasformazioni della società vi venivano prese in giro sotto questa forma in una prospettiva puramente letteraria. Ciononostante, la tecnica di canto associata a questa arte, l’abitudine di fare precedere il testo da un lamento in cui la melodia era improvvisata sulle parole “o notte o occhio”, resero il mawwal unHnomeno tipicamente egiziano, a dispetto dell’origine senz’altro irakena del modello poetico originario. Il mawwal si collega alla tradizione classica della mawaliya, inaugurata, secondo la leggenda, da una fedele sura della famiglia dei visir bermecidi, assassinati nel secolo Vlll a Baghdad per ordine del califfo Harun al Rashid. ll sovrano aveva vietato ai poeti di comporre delle qasida* funebri in loro memoria, e la serva aggirò il divieto del califfo improvvisando una poesia in lingua dialettale nella quale ciascun verso terminava con una rima ricca, e l’intera poesia si concludeva con l’esclamazione “wa mawaliyah’ (ah, miei poveri maestri)… I cronisti Safi al Din al Hilali (irakeno vissuto in Egitto,,1277-1349) e Galal al Din al Suyuti(1445-1505) notarono ambedue la fortuna che il genere aveva in Egitto. Precisano che è necessario omettere le declinazioni dell’arabo classico e che è possibile impiegare vocaboli del volgare. La forma più antica di questo tipo di poesia pare contare quattro versi sul metro basit che seguono ciascuno la medesima rima. Il periodo di penetrazione del mawwal in Egitto non è noto, ma il fatto che al Suyuti ne parli prova che la forma classica vi era conosciuta a partire dal secolo XVI. Come tutte le espressioni poetiche in lingua dialettale che conobbero una grande fortuna a partire dal XIX secolo, il mawwal è spesso scritto da letterati di provincia che hanno ricevuto un’educazione religiosa o che sono passati per Al Azhar senza aver conservato una qualsivoglia ripugnanza per la lingua popolare. Mentre gli Shaykh* del Cairo scrivevano mawwal sentimentali per i cantanti di corte all’epoca del kedivé lsma’il, il mondo arabo rurale si era senza dubbio già appropriato di questa arte ludica.

Corto e sentimentale, “verde” (che trattava dell’amore fortunato) o “rosso” (sofferenza, abbandono e duri colpi del destino), lungo e narrativo, non misurato o ritmato dal riqq e dalla darabukka, questo canto fa anche parte sia del repertorio rurale che del canto colto. Ahmad Amin, nel “Dictionnaire des coutumes et des expressions égyptiennes” (1953, 249), consacra un breve articolo alla poesia popolare, a cui attribuisce caratteristiche che descrivono perfettamente il mawwal: la deliquescenza dell’amore, i pianti della separazione, il culto tributato agli occhi, alle ciglia e alle corporeature, e infine l’importanza accordata alla paronomasia, cioè all’allitterazione più o meno completa che conclude i versi. Notiamo già nei testi antichi che il mawwal è un terreno privilegiato del gioco di parole, della tawriya (allusione codificata) che consiste nel fare figurare una paronomasia alla fine del verso, sia tramite la ripetizione di uno stesso significante, riferito a due significati diversi, sia attaccando due parole che, lette rapidamente l’una in seguito all’altra, paiono equivalere all’ultima parola di un altro verso. E’ là l’applicazione a decine di versi del celebre gioco di Victor Hugo su “la tour Magne à Nimes” e “la tour magnanime“.

Una sola parola equivale così alla combinazione di due o tre parole.Queste astuzie implicano da una parte larghe influenze a livello della lingua, di termini preziosi provenienti dalla poesia amorosa del Ghazal che confina con dialettalismi e provincialismi, e forzano addirittura a delle inversioni di vocali e a distorsioni in seguito alla norma dialettale della pronuncia dei casi. Il poeta o il cantante è così costretto a ripetere più volte il suo verso, oppure a suggerire la soluzione del trucco, decomponendone gli elementi o avvicinandosi alla pronuncia abituale. L’abilità è chiamata dagli autori zahr (fiore) del mawwal, e la rivelazione del segreto è detta tazhir, come l’apertura del fiore. Pierre Cachia sottolinea che “delle spiegazioni sono raramente necessarie per i paesani e gli abitanti dei quartieri popolari delle città, che costituiscono l’uditorio usuale del cantante di mawwal. Essi sono in attesa di un gioco diparole, e si dilettano moltissimo nel decifrare e sono restii ad ammettere di fare fiasco” (1977, 91). Un mawwal composto da semplici rime o nel quale l’ultima parola sia ripetuta nella stessa accezione semantica è detto mawwal bianco e sarebbe considerato malamente dagli amatori.

La lunghezza e i modi di interpretazione e di accompagnamento dei mawwal sono molto variabili. Usualmente il mawwal corto è un canto non misurato, integralmente improvvisato e che rimane nel campo di un unico modo. Può comprendere quattro versi, ma è più frequente incontrare il mawwal a’rag (zoppo), di cinque versi dalle rime AAABA, e il nu’mani, di sette versi dalle rime AAABBBA. L’ultimo verso, chiamato taqiyya (berretto), è a volte omesso nei poemi più lunghi. ll cantante procede tramite lunghe frasi ornamentate seguendo un movimento spesso ascendente e poi discendente. Ogni verso è tagliato, la parola saliente ripetuta, la linea melodica riformulata con qualche variazione. Nel quadro popolare, l’accompagnamento strumentale è compiuto con strumenti a fiato: mizmar, suffara e/o arghul, che sottolineano il percorso melodico e lo traducono durante i silenzi del cantante.

Più che in tutte le altre parti del repertorio popolare, il mawwal si regge sulla bellezza della voce del solista. Hrhammad al Arabi (1881-1941), registrato al Congresso del Cairo del 1932, fu, con la sua concorrente, la Pellegrina Zaynab al Mansuriyya, il più celebre interprete di mawwal e di taqatiq baladi della prima parte di questo secolo. Dotato di una voce dai toni tragici, terminava ritualmente i suoi canti con l’espressione “taletalayya l-layali” (le notti mi sono ben lunghe) o “gharib we dakhil manazil’ (sono uno straniero che chiede ospitalità). Accompagnato dai suonatori di mizmar e di suffara Hasan ed Husayn, e contrappuntato dal cantante Muhammad al Sughayyat, incise per la compagnia Baidaphon decine di 78 giri, l’ascolto dei quali superò largamente l’ambito rurale e influenzò i compositori di musica popolare urbana. La darabukka o il riqq non si usavano nei mawwal di al Arabi se non nei ritornelli introduttivi, i dulab, ma il canto era sempre non misurato. Ciononostante, è possibile sentire in Egitto mawwal corti nel corso dei quali sono utilizzate delle percussioni, sia come sottofondo strumentale fra due frasi cantate non misurate, sia come ostinato che non influisce direttamente sulla linea melodica del cantante: le cadenze finali cadono a volte sui tempi forti  del ciclo ritmico, ma l’insieme della frase rimane indipendente.

Riguardo al mawwal narrativo, intercala molte decine di terzine che comportano la necessaria paronomasia tra i primi gruppi di versi, secondo il modello seguente: AAA, BBB, CCC, DDD…A. ll tipo di interpretazionedi queste ballate differisce musicologicamente dal mawwal corto. La celebre interpretazione del cantante popolare Hifni Ahmad Hasan della tragedia di Shafiqa e Metwalli illustra letterariamente e melodicamente questo genere. La storia, che si svolge negli anni venti, stigmatizza le esigenze che la società e l’onore familiare dettano agli abitanti dell’Alto Egitto. Metwalli, giovane paesano di Girga, diviene sergente maggiore dell’armata e si trova di fronte ad un soldato disobbediente che gli batte sulla spalla e che fa scattare il dramma:

qal-lo: ezzay tedrabni ya jaban          Gli disse: perché mi batti, vile!

mh edfen nafsakjuwwa jabbana        Va a seppellirti in un cimitero

‘adi sort okhtak juwwa jebi-ana         Ho la foto di tua sorella in tasca.

Si nota nell’ultimo verso la costruzione di una rima di due parole, jebi (la mia tasca) e ana (io), che formano la paronomasia con jabbana (cimitero). Metwalli ritorna a casa sua, suo padre tenta di fargli credere che sua sorella Shafiqa sia morta. Metwalli rifiuta di crederlo:

yaba, law enta rabbetha, ma trafeqsh we takhod el tor betha

padre, se tu l’avessi ben allevata, essa non avrebbe portato lo stallone a casa

tayyib, qum we warrini torbetha

alzati e vieni a mostrarmi la sua tomba!

Il padre confessa che Shafiqa è fuggita ed è diventata una prostituta. Per purificare la reputazione della famiglia, Metwalli ritrova la peccatrice e la uccide. Il cantante, tramite gli accenti della sua melodia, sa ad un tempo esprimere la tragedia della sorte di Shafiqa, vittima del destino, e confortare il suo uditorio tradizionale con un finale melodrammatico.

Numerose altre ballate sentimentali o politiche sono interpretate in Egitto, come Hasan e Na’ima, dramma della vendetta tipica dell’Alto Egitto, provocata dall’amore che il cantante popolare Hasan aveva per la bella Na’ima che scappò per raggiungere il villaggio del suo amato. La giovane era ancora vergine, ma il giovane cantante dovette comunque morire per avere attirato il disonore sulla famiglia nemica, scatenando un ciclo di violenze.

Le musiche rurali di fronte alla modernità

L’industria musicale egiziana non trascurerà mai interamente le espressioni musicali rurali: la diffusione delle poste e della radio e della televisione così come la diffusione delle cassette registrate a partire dagli anni settanta permette di superare il bersaglio cittadino abitualmente visualizzato. Negli anni settanta, una vecchia allieva dell’lstituto di musica araba, Layla Nazmi, tentò di aggiornare le canzoni folkloristiche al gusto del tempo. Mentre appariva travestita da paesana sul piccolo schermo, riprendeva i canti delle feste, delle nozze o votivi, seguita da un’orchestra e un accompagnamento ritmico dal tempo accelerato. Se l’autenticità musicale delle sue rappresentazioni era poco affidabile, le sue creazioni entrarono nel repertorio autentico degli interpreti rurali, e i testi che ella cantava, effettivamente raccolti accanto al suo pubblico rurale, traducevano finemente le influenze del progresso moderno nella società rurale: così la ragazza che decretava “ma-shrabsh es-shay ashrab qazuza ana” (non bevo tè, io bevo cose gasate) riunì i canti antichi delle almée, nei quali la ragazza provò il suo valore di venditrice esigendo una dote rispettabile, o questa taqtuqa degli anni venti in cui la sposa rifiutava il tradizionale hodag (palanchino sul dorso del cammello) ed esigeva una automobile per essere condotta alla dimora dello sposo. Allo stesso modo, Layla Nazmi divertì i Cairoti facendo loro ascoltare il nuovo testo che i paesani avevano introdotto in un celebre pezzo folkloristico, “etdalla ‘ya ‘aris ya bu lassa naylo” (giovane sposa, pavoneggiati nel tuo turbante di nylon) e confermava una caratteristica, del tempo che Tiberiu Alexandru ebbe l’occasione di constatare di persona, un canto di nozze interpretato a Damanhur da autentici paesani che descrivevano una fidanzata “tutta in nylon” (1967).