Rituale Somalo Mingis
Somalia: La terapia coreutico-musicale del Mingis
di Franceso Giannattasio
pubblicato su “Culture musicali. Quaderni di etnomusicologia” 1982
Zar è un termine non semitico che si ritiene derivi dal nome del Dio-cielo cuscita, Jar.
Infatti le popolazioni che lo praticano sono di ceppo cuscitico (cioè relativo all’insieme delle lingue africane non sudanesi e non semitiche dell’Abissinia e delle regioni costiere dell’oceano Indiano e del mar Rosso), e il culto può essere considerato una sopravvivenza dell’antica religione cuscita (che oltre al Dio Jar elencava una serie di spiriti benevoli e maligni), in zone comunque convertite all’Islam o al Cristianesimo. I nomi e le collocazioni degli spiriti cambiano ora in relazione alla religione ufficialmente seguita dal popolo che pratica lo Zar.
Spesso lo Zar è mal visto dalle autorità, e deve pertanto essere praticato in segreto, poiché è considerato un segno di non modernità e di superstizione, anche se non viene apertamente osteggiato. Spesso le persone vi ricorrono sperando di alleviare le proprie sofferenze, senza credere profondamente ai Djinn ed al loro valore religioso: questo può essere un sintomo del cambiamento che la società sta evolvendo a partire dal processo di urbanizzazione e di modernizzazione. Oltre a bruciare l’incenso, l’incensiera viene utilizzata per scaldare e tendere le pelli dei tamburi. Durante la cerimonia, viene fatto largo uso di profumi.
Gli adepti intervengono vestiti di colori particolari, in relazione ai loro djinn. Incenso, profumo e vesti colorate servono a disporre un’atmosfera favorevole al Djinn, in modo che si manifesti. Per questo, gli oggetti assumono un carattere sacro, e vengono manipolati soltanto dall’officiante e dai suoi aiutanti. Dal punto di vista filosofico, questi oggetti sono preparati per lo spirito, ma in realtà contribuiscono a creare nelle persone che partecipano alla cerimonia una ipereccitazione sensoriale, che faciliterà la transe ed il coinvolgimento.
Il ritmo usato nella cerimonia è binario, in 2/4, su quattro tempi, a velocità piuttosto costante: dum (di 3 sedicesimi) tak (di 1 sedicesimo) dum (di 1 ottavo) tak (di 1 ottavo). La melodia si basa su un sistema pentatonico e non prevede intervalli superiori all’ottava. Il canto è spesso a frasi alternate, con ripetizione da parte di gruppi diversi della stessa frase musicale o con risposte diverse nei due gruppi. I vari canti sono associati ai diversi spiriti, di cui esaltano le caratteristiche ed i desideri, e si riducono a volte alla continua ripetizione del nome del Djinn. Il ritmo ad un certo punto si fa costante, in pulsazioni di 1 ottavo, e su questa base si creano complessi suoni creati col battito delle mani, accompagnati ada frasi semplici di canto, spesso ripetute come un ostinato. Un tale tipo di ritmo crea senza dubbio una eccitazione sensoriale. Sono comunque sempre i musicisti a determinare la struttura delle musiche, e mai gli adepti, che partecipano ai canti in modo proporzionale al loro livello di approfondimento del rituale. Tutta la cerimonia è accompagnata da una grande quantità di grida e di zagharid (grido particolare, prodotto dalle donne arabe di tutte le regioni, che consiste in un urlo acutissimo che viene reso vibrante da rapidi movimenti della lingua, come se si pronunciasse un velocissimo “lalala”, cioè un movimento verticale della lingua, tipicamente medio orientale, oppure un movimento laterale, orizzontale, più tipicamente maghrebino).
La danza del posseduto avviene dapprima in forma di camminate saltellanti. Più ci si avvicina alla transe e più la danza si fa convulsa: gli spostamenti nello spazio si riducono ed il corpo oscilla e trema, la testa e gli arti oscillano. Spesso in questa fase l’adepto grida e piange.
La danza del conduttore può culminare in una serie di giri vorticosi, che esprimono la sua funzione di medium, e non di posseduto. Deve poter mantenere il controllo della situazione per poter dare assistenza agli adepti, e non sembra andare in transe. La musica svolge un ruolo fondamentale nel rito, scandendone i tempi e le modalità, ed è musica particolare, destinata soltanto al rito stesso, e perciò dispone i partecipanti in uno stato al di fuori della quotidianità, in una dimensione magico-religiosa.
Perché il rituale possa essere considerato tale, dunque, devono essere presenti tre aspetti analoghi a quelli che Piaget elenca a proposito del gioco infantile:
il piano simbolico- nel senso del significato rituale;
il piano delle regole- nel senso delle regole che ordinano la cerimonia;
il piano sensomotorio- nel senso dei comportamenti dell’individuo oggetto della terapia.
L’esistenza del mito comporta l’esistenza della cerimonia che a sua volta determina la possibilità della manifestazione della reazione comportamentale (danza, transe e tutte le espressioni del Djinn). In qualche modo l’officiante presiede alla funzione rituale, il gruppo di adepti a quella cerimoniale, e l’ammalato vive le sue reazioni comportamentali in una sorta di gerarchia. La musica stessa assolve alle tre funzioni: è simbolica, nel richiamare i Djinn, determina lo svolgimento del cerimoniale, ed offre al paziente una serie di stimolazioni psicomotorie che vengono integrate da altre, dirette però sempre dall’andamento della musica e da esso dipendenti (contatti con l’officiante ed altri adepti, stimolazioni odorifiche, visive, cinestesiche e della disposizione spaziale delle persone).
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